IL DURO MATERIALISMO DEL VERISMO ED IL DARWINISMO  CON E.GUARNERI NE “LA ROBA”AL QUIRINO

L’essere umano, secondo la concezione aristotelica è un composto di materia e forma, un “sunolon” ilemorfico, con anima e corpo lo definì poi San Tommaso nella revisione cristiana della sua dottrina, per cui può guardare in alto seguendo gli ideali ed i valori dettatigli dallo spirito e che la mentalità cartesiana può condividere e sostenere razionalmente, oppure rimanere preda dei suoi bassi istinti materiali e perdere la propria specifica identità nel regno animale cui appartiene. Questo ce lo ricorda, ammonendo la stirpe di Adamo ed Eva il sommo poeta Dante nel Canto XXVI dell’Inferno in cui sono i famosi versi “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, dunque l’uomo è posto di fronte ad un bivio da cui dipende la sua nobilitate, o meglio come diceva Shakespeare nell’”Amleto “, la famosa scelta “essere o non essere”. Si può affermare che il XIX secolo ha riassunto storicamente e letterariamente tale “aut aut” della libertà umana : infatti nella prima parte ha privilegiato il Romanticismo, ossia il cuore, amando Dio , la famiglia e la Patria in nome della quale ha combattuto per il Risorgimento e l’indipendenza nazionale con spirito indomito e fiero, come rammentano i fecondi geni di Leopardi, Manzoni, Foscolo, Giusti, Berchet, Mazzini e lo statista Cavour, mentre dal 1860 in poi la piramide ideologica fu capovolta da Auguste Comte e cominciò a guardarsi alla Natura, al guadagno ed alla ricchezza per cui il principale pensiero divenne il sempre maggiore guadagno, piegandosi evangelicamente all’idolatria del denaro, al culto di Mammona. Si andò formando in misura sempre crescente la società stratificata e s’impose la dottrina darwiniana della selezione della specie, per cui non c’era più posto nel consorzio civile per i deboli, i fragili, gli operai ed i fittavoli, i contadini, dominando il capitalismo ed il plusvalore nelle fabbriche dopo la parentesi del luddismo, oppure la proprietà delle terre con i massari ed i i “baroni” al Sud come trovò Garibaldi con i suoi Mille quando vi scese per la lotta contro i Borboni. Un fedele quadro di tutto ciò ce l’offre con la sua produzione letteraria il celebre autore catanese d’origini borghesi Giovanni Verga che, dopo aver studiato Giurisprudenza nell’Ateneo etneo dove appunto era nato nel 1840, si traferì al Nord e qui fu a contatto con i circoli sentimentali, che gli ispirarono stupende opere amorose e sensuali quali “Eva, “Eros”, “Tigre Reale” e “Storia d’una Capinera”, in parte ripresa da Gertrude de Leyra del capolavoro di Manzoni “ I Promessi Sposi” a cui avrebbe legato concettualmente pure la prima parte del terzo romanzo del ciclo de “I Vinti” rimasto incompiuto con il titolo “La Duchessa di Leyra”, mentre il secondo “Mastro Don Gesualdo” non è altro che lo sviluppo della novella “ La Roba” che in questi giorni la Compagnia “Progetto Teatrando” sta rappresentando al Teatro Quirino alias V. Gassman con un altro grande attore della città dell’elefante suo simbolo : Enrico Guarneri. In realtà rientrando al Sud nella seconda metà del secolo l’autore vi rinvenne i contadini, sfruttati dal baronaggio oppressivo senza il riconoscimento dei diritti dei lavoratori, in piena rivolta, com’era avvenuto in Germania nel 1525 allorché la sommossa degli agrari fu domata a Munster, per cui iniziò a redigere le novelle che illustravano le condizioni del mondo rurale, raccolte in due antologie : “Vita dei campi” in cui la più importante è la figura della povera Nedda e “Novelle Rusticane” con due sopra le altre per livello argomentativo e didascalico : “ Libertà” sui moti civili delle campagne che Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi , avrebbe represso in nome dell’ordine pubblico, quasi fossero i tumulti  di oggi degli anarchici insurrezionali per Cospito contro il 41 bis, nonché quella di cui parleremo criticamente adesso e che si ricollega alla scuola del Verismo teorizzato da Luigi Capuana a Napoli, ove lo presero a modello Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio che crearono il quotidiano partenopeo “Il Mattino” a via Chiatamone. La chiave interpretativa dispiegata in tutti i suoi molteplici aspetti è la triste situazione dei contadini, degli umili, dei sommersi che sono una massa amorfa, puri numeri che un ricco ed egoista, megalomane ed arrogante, ignorante, proprietario di terreni ed animali tratta come schiava manovalanza utile solo a custodire le bestie e lavorare le terre, raccogliendo prodotti agricoli e legname, come se il mondo avesse subito una grave involuzione e fosse tornato all’età della pietra con il primato dei cacciatori raccoglitori, mentre le donne sfregando le pietre accendevano il focolare od il vile fuoco, uno dei 4 elementi primordiali. La formazione artistica di cui stiamo parlando sta con merito portando avanti il riadattamento drammaturgico dei testi classici isolani che mantengono ancora una pregnante attualità, specialmente in questi tempi in cui assistiamo purtroppo alla triste fine in mare dei diseredati che scappano dalla guerra o dalle dittature talebane od africane, partendo dai lavoratori agricoli che successivamente a distanza di quasi un secolo nel 1947  sarebbero stati oggetto della strage di Portella della  Ginestra in nome della mafiosa società aristocratica siciliana dell’epoca. Insieme a questi v’erano i lavoratori delle miniere, che poi avrebbero portato al matrimonio d’interesse tra le famiglie Pirandello e Portolano, in cui i “Carusi” erano trattati peggio di schiavi, come negli antichi tempi senza possibilità di redenzione od affrancazione, bestie da soma al punto da spingere Rosso Malpelo a prendere le difese del povero Ranocchio, un mondo che in alcune zone ancora rimane ed oggi è soggetto ai “padrini”, ai braccianti di servile e malpagata manodopera oppure agli scafisti.

La “fiumana del progresso “, il Positivismo di Comte, a cui già il filosofo illuminista J.J. Rousseau non credeva, non poteva che travolgerli, portarli via, come ora fa il Mediterraneo, per cui loro non potevano che accontentarsi, come nel Vangelo, delle briciole che cadevano dalla tavola del ricco epulone, ai cui piedi v’è il mendicante ciancioso e coperto di pustole Lazzaro che s’alimenta con i resti, ma poi andrà in Paradiso, anche se Feuerbach filosofo tedesco ateo asseriva che “la religione è l’oppio dei popoli” per far loro scordare le pene terrene. Così i lavoratori grigi ed imbelli di Mazzarò dovevano limitarsi a prendere della legna o dei frutti dai campi di Mazzarò che in apertura, in una scena rustica dominata al centro da un albero, che sarebbe divenuto quello caratteristico del nespolo nel capolavoro “ I Malavoglia” con al centro i Toscano e la barca della Provvidenza con il traffico dei lupini ed il naufragio, il tema dell’ostrica e ‘Ntoni che diventa contrabbandiere, mentre il piccolo Luca muore a Lissa nella guerra a del Risorgimento, tiene un potente monologo in cui vanta le sue infinite estese ricchezze, che sono assurte all’unico scopo nella vita come il vitello d’oro per gli Israeliti nel deserto. A tal proposito ci sovviene il brano del Vangelo che insegna a colui che è vissuto solo raccogliendo ed adorando i suoi beni “ Questa notte ti sarà richiesta la tua anima ed allora a che saranno serviti tutti i tuoi sacrifici e quello che hai accumulato  a chi andrà?”. V’è pure l’altra didascalia perentoria “E’ più facile che un cammello passi per la cruna d’un ago che un ricco entri in Paradiso”. Mazzarò sta sempre con il fucile in mano temendo sedizioni, è truce nel dare ordini che non ammettono repliche ed il suo tono verbale è sempre inquisitorio e sospettoso, in quanto non si fida degli altri non essendosi mai sposato e nutrito d’affetti, avendo avuto necessariamente solo la madre di cui rimpiange avaramente, una figura già nota nel teatro latino con Plauto e che sarebbe tornata nella commedia moderna con Moliere e l’avvocato lagunare C. Goldoni, i soldi spesi per le onoranze funebri. La loro esistenza è cruda, misera e spietata, senza possibilità di riscatto, come testimoniano gli sfoghi e le confidenze meste delle contadine, i si sente tra le righe il ghigno beffardo dello scrittore che era un borghese, tuttavia c’è sempre un Nord del Nord ed che sarebbe successo se avesse potuto comporre gli altri due romanzi concepiti, uno per ogni classe: “l’onorevole Scipioni” e “L’uomo di lusso”? Senza dubbio lo sconfitto sarebbe stato lui e la borghesia, che con Mastro Don Gesualdo Motta s’era comprato il titolo nobiliare dai Trao che stavano andando in rovina con l’incendio del loro palazzo;  sul letto di morte apprenderà che Isabella non è sua figlia bensì dell’incesto di Bianca con il cugino Nini Rubiera e capirà che con il marito duca di Leyra dilapiderà sventatamente tutte le sue fortune. Codesta sciagurata fine sarà pure quella che colpirà Mazzarò quando bruscamente avrà cacciato via tutti e rimarrà solo nella disperazione ed amarezza rendendosi conto della sua vita sprecata per un culto fallimentare che non lascia estimatori e rimpianti, facendoci perdere la vita eterna ed icasticamente significato dal principe Antonio DE Curtis con la sublime lirica “ A’ livella”.  Sprofonda nel dolore come tutti i derelitti ed abbandonati avendo saputo che il cavallo “ lo Stellato” è caduto nel burrone e che un suo  dipendente ha sciaguratamente ucciso l’amico d’infanzia Alfonsino per un problema di legna in dotazione, ovvero di sopravvivenza. Il personaggio verghiano è straordinariamente incarnato nella voce etnea e nell’espressione gergale, nella mimica facciale da Enrico Guarneri con esilaranti posture corporee e trionfale incedere nella splendida scenografia campestre di Salvo Manciagli, mentre lo scavo economico e psicologico dei personaggi con la riduttiva oggettiva elaborazione della novella scarnificata da incrostazioni temporali, in base alla regola dell’oggettività e dell’impersonalità fotografica del Verismo à la caratteristica principale della regia di Guglielmo Ferro, che ne comunica tutta la virulenza padronale e l’arbitrario assolutismo del periodo in cui un autentico sistema sindacale vigeva solo in Inghilterra con le Trade Unions”.Suggestivi pure i costumi isolani di fine ‘800 della sartoria Pipi di Palermo nella drammaturgia rivista da Micaela Miano.

Giancarlo Lungarini